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LE SCUSE DEL PREMIER NEOZELANDESE PER LE TORTURE DI STATO

Il mea culpa del primo ministro Christopher Luxon arriva dopo la chiusura dei lavori di una commissione d'inchiesta che ha messo nero su bianco la catena degli orrori
Luxon, politica
Il premier neozelandese durante il suo discorso

Il 12 novembre 2024, il primo ministro della Nuova Zelanda, Christopher Luxon, ha pronunciato un discorso in cui chiedeva formalmente e senza riserve, scusa, a nome del Governo e del Paese, per le sofferenze inflitte a bambini e adulti vulnerabili negli istituti di cura statali e religiosi tra il 1950 e il 1999.

Il discorso, pronunciato davanti al Parlamento, riconosce il fallimento della Nuova Zelanda nell’offrire protezione ai più vulnerabili. Con questo la coscienza, la vergogna e la ferma condanna per aver portato avanti una costante pratica di “tortura di stato”. Luxon ha definito gli abusi una “vergogna nazionale”, esprimendo il suo rammarico per il fatto che alle vittime non sia stato dato ascolto quando hanno denunciato gli abusi e per la mancanza di vigilanza che ha permesso che altri potessero subire lo stesso destino.


Il mea culpa è arrivato dopo la conclusione di un'inchiesta di sei anni condotta da una apposita commissione, la Commissione Reale, la quale ha rivelato l'entità degli abusi subiti da migliaia di bambini e adulti affidati a istituti di cura statali e religiosi.


Il rapporto della Commissione Reale d’inchiesta

L'indagine dell'organismo, che ha esaminato casi dal 1950 al 1999, ha rivelato una realtà agghiacciante: circa un terzo delle 650.000 persone coinvolte nei programmi di assistenza (bambini, anziani, disabili ed altri soggetti vulnerabili) ha subito abusi fisici, sessuali, psicologici e verbali. La Commissione ha sottolineato che le violenze non erano solo frutto di accadimenti isolati, ma di una ideologia che dava vita ad pratica operativa corrente che, per decenni, ha permesso, sostenuto e coperto comportamenti inumani. Sebbene il numero di abusi documentati sia impressionante, la Commissione ha sottolineato che il numero effettivo potrebbe essere maggiore, visto che molti casi non sono mai stati registrati e che in molte occasioni i documenti ufficiali sono stati deliberatamente distrutti.


Il contesto in cui si sono verificate le violenze è profondamente legato alle politiche di “welfare” statale e alle pratiche religiose del periodo. Gli anni 50 e 60 segnarono un periodo in cui molte famiglie, in particolare quelle più vulnerabili o di origine indigena, erano costrette a “cedere” i propri figli alle istituzioni, ricevendo in cambio la promessa che questi luoghi avrebbero garantito loro una vita migliore e più sicura. I bambini passavano nelle mani di istituzioni, statali o religiose, prive di una seria supervisione e spesso animate da uno spirito di fanatismo sia medico che religioso a sfondo razzista.


Le testimonianze dei sopravvissuti parlano di violenze fisiche, ma anche di trattamenti psicologici devastanti. L’abuso sessuale è stato particolarmente prevalente, con numerosi casi di bambini e adolescenti violati da figure con poteri di responsabilità all’interno delle strutture. Inoltre, la paura quotidiana, la negligenza nelle cure mediche, la privazione di affetto, hanno contribuito ad alimentare traumi di lunga durata.

Il caso del Lake Alice Child and Adolescent Unit, un ospedale psichiatrico per bambini, è uno dei più emblematici. Lì, infatti, si praticavano trattamenti coercitivi, come la somministrazione forzata di elettroshock agli infanti.


Un altro aspetto scioccante emerso nel corso dell’inchiesta riguarda le sterilizzazioni forzate, praticate su donne, sopratutto indigene, e disabili. Questi atti, giustificati da motivazioni eugenetiche, facevano parte di politiche discriminatorie che cercavano di controllare le nascite in determinate comunità. Le vittime di queste sterilizzazioni, che spesso avvenivano in un contesto di scarsità di mezzi sanitari e in sale operatorie improvvisate, sono state private del diritto fondamentale di avere figli e hanno subito enormi danni fisici e psicologici.

Le sterilizzazioni forzate sono state praticate soprattutto negli anni 60 e 70, e sono state ampiamente ignorate fino a quando le testimonianze delle vittime non ne hanno portato alla luce la portata.


Le vittime native hanno denunciato non solo la violenza fisica e psicologica, ma anche un trattamento sistematicamente razzista. Per le comunità Maori, gli abusi istituzionali sono stati in linea di continuità con le politiche coloniali che miravano a distruggere le loro tradizioni e identità culturale. Con l'aggiunta delle sterilizzazioni forzate si sarebbe intrapresa la strada, fortunatamente non portata a compimento, della cancellazione della loro etnia e di tutte le altre etnie native.


Le raccomandazioni della commissione

La Commissione Reale, in conclusione del suo lavoro, ha fornito una serie di raccomandazioni per garantire che simili abusi non si ripetano. Anzitutto il risarcimento finanziario alle vittime, da effettuarsi attraverso la creazione di un sistema di risarcimento centralizzato, che dovrà essere operativo entro il 2025.

La modifica della legislazione per rendere più efficaci le politiche di tutela dell'infanzia e garantire una supervisione più rigorosa delle istituzioni.

La creazione di meccanismi di controllo per evitare che abusi simili possano ripetersi.

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